Se c'è un aspetto che ha caratterizzato il mondo del web negli ultimi anni è il ruolo decisivo conquistato dal mobile: smartphone con display sempre più grandi, siti responsive (vale a dire che si adattano al dispositivo che li sta visualizzando),applicazioni ottimizzate al meglio. Tutto ciò ha fatto sì che la navigazione suinternet – in particolar modo per quanto riguarda l'informazione – si siaspostata in larga parte dal computer a quello che una volta chiamavamocellulare. Nel 2014, in particolare, èavvenuto il sorpasso: gli utenti di internet da mobile hanno superato quelli da desktop.
Prima di parlare di“era del mobile”, però, ci sono però alcuni ostacoli che vanno superati: lalentezza del caricamento delle pagine sugli smartphone, l'invadenza a volteinsopportabile della pubblicità (che, a differenza che sul computer, sipiazzano in mezzo alla pagina) e il modo spesso difficoltoso in cuivisualizziamo gallery e video. Dal momento che una parte sempre più grande dell'informazione viene fruita attraverso i social network (in primis,Facebook), non stupisce che sia stato proprio Mark Zuckerberg il primo a trovare una soluzione al problema, attraverso Instant Articles.
Di che si tratta? A prima vista, sembra semplicemente un “plug-in” che permette di leggere su mobile gli articoli condivisi su Facebook dalle varie testate senza lasciare il social network. Basta cliccare sul link e il contenuto si apre immediatamente.Per i lettori, i vantaggi sono evidenti: non ci sono più tempi di attesa e l'invadenza della pubblicità si è ridotta notevolmente. Anche per gli editori c'è un vantaggio enorme: gli articoli pubblicati con Instant Articles ottengono visualizzazioni superiori del 400% rispetto alla media. Non male, considerata l'ossessione per i click.
E invece, qual è il vantaggio per Facebook? Non tanto la pubblicità ulteriore che può conquistare (anche perché la stragrande maggioranza degli introiti finisce nelle tasche degli editori), ma proprio il fatto di trattenere all'interno della piattaforma gli utenti, che solitamente, invece, cliccando sul link abbandonano il social network.
Questo è l'aspetto fondamentale: se c'è una cosa che Facebook non vuole è infatti che gli utenti lo abbandonino per seguire qualche link. Di conseguenza, lo scopo ultimo di Instant Articles è solo uno: permettere ai lettori di visualizzare tuttal'informazione che vogliono senza mai dover abbandonare il più importante social network del mondo. Se poi tutto questo aumenta le visualizzazioni e di conseguenza anche le entrate pubblicitarie degli editori che producono i contenuti, tanto di guadagnato per tutti. Fino a poco fa, erano solo una manciata le testate ad aver sperimentato Instant Articles, mentre a partire dal 12 aprile tutti potranno utilizzarlo.
I lati negativi di questa faccenda, però, non sono pochi. Prima di tutto: gli editori hanno deciso“spontaneamente” di cedere il controllo della distribuzione dei loro contenuti a un'altra impresa. Così facendo, il vero editore diventa Facebook. Il social network che si trasforma, come è stato più volte definito, la “homepage del mondo”; le testate d'informazione sono così poco più che fornitori di contenuti, di cui si visualizza il singolo articolo.
Per le testate di qualità sarà sempre più difficile “fidelizzare” i propri lettori, che non si abitueranno mai ad accedere al sito che hanno salvato tra i preferiti pervedere cosa c'è di nuovo; ma partiranno nella loro navigazione sempre e solo da Facebook. Il mondo dell'informazione, di fatto, cede il controllo a Mark Zuckerberg e rinuncia a far valere il proprio brand.
In cambio, ricevela possibilità di aumentare drasticamente le proprie visualizzazioni. Almeno fin quando Facebook non deciderà diversamente (visto che la visibilità degli articoli dipende dalle modifiche fatte al suo algoritmo): con l'obiettivo di far pagare in pubblicità (che diventano gli “articoli sponsorizzati”) chi vuole conquistare più lettori o, magari, per promuovere a scapito degli altri i contenuti giornalistici prodotti direttamente da Facebook, che ha da tempo il progetto di creare una sua redazione giornalistica interna.
Vale la pena di rischiare così tanto e dare tutto in mano a Facebook? Evidentemente, sì. Più che altro perché altre possibilità non sembrano esserci, visto il ruolo sempre più importante che Facebook ha assunto nella diffusione dell'informazione e viste le pochissime alternative (peraltro piene di incognite) che gli editori hanno trovato al modello “visualizzazioni e pubblicità”.
Ovviamente, i più grandi rivali di Facebook non sono stati a guardare mentre il social network di Zuckerberg “si mangiava il mondo” (come ha scritto la Columbia Journalism Review). Apple ha da qualche tempo lanciato l'applicazione (ma solo in Usa e Regno Unito) Apple News: al momento sono circa 50 le testate che hanno deciso di entrarne a far parte (tra cui il Guardian, BBC News, Financial Times, il NewYork Times, ESPN), puntando proprio sul fatto che su quella applicazione, così come su Instant Articles, la pubblicità non potrà essere bloccata.
La contromossa del terzo attore nella “guerra di internet”, vale a dire Google, passa invece dal lancio di AMP (Accelerated Mobile Pages). Si tratta di un codice creato dalla Big G con numerosi partner emesso a disposizione di tutti in open source (chiunque lo utilizza puòmodificarlo a suo piacimento) per risolvere il solito annoso problema: la lentezza di caricamento delle pagine su mobile. Mentre Instant Articles e AppleNews si applicano alla sola informazione, AMP può tornare utile(potenzialmente) a tutte le pagine web.
Non solo: a differenza di quanto fatto da Apple e Facebook, non si tratta di provare a rinchiudere l'informazione nei recintidelle grandi aziende (i cosiddetti “walled garden”), ma di fornire a tutti l'opportunità di utilizzare l'innovazione creata da Google per offrire una migliore esperienza utente. Con AMP, in effetti, gli articoli e i contenuti in generale visualizzati su mobile si caricano fino a 10 volte più rapidamente esi presentano in una forma molto più pulita.
Ma qual è lo scopo di Google, puro mecenatismo ? Ovviamente no: come segnalato dagli esperti di Backchannel, il colosso di Mountain View ha dei suoi interessi peculiari: “Il modello di business di Google ha un grosso interesse nel mantenere il web un luogo aperto; o almeno aperto a sufficienza per sostenere il suo business basato sulle pubblicità (…). La fine dell'open web è la minaccia più pericolosa per Google”.
In effetti, nel momento in cui l'informazione (e non solo) dovesse rinchiudersi nel mondo di Facebook e di Apple News, per Google il colpo sarebbe mortale: il numero di persone che visualizzerebbero le sueinserzioni nelle varie pagine web si ridurrebbe drasticamente. Il vero obiettivo di AMP, quindi, è quello di migliorare la fruizione di contenuti sul web “aperto” e rallentare così lo spostamento di una parte sempre maggiore dell'informazionenei recinti dei suoi competitor più pericolosi.
Nel complesso, però, quale sia la direzione presa dainternet è chiaro: i colossi della Silicon Valley si stanno divorando una quota sempre maggiore dei contenuti del web, chiudendoli nei loro “walled garden” e imponendo, grazie al potere che posseggono, le loro regole a tutti. E così, a vent'anni esatti dalla dichiarazione d'indipendenza del cyberspazio, Internet rischia di diventare sempre più un business privato di poche enormi aziende. Con tanti saluti al sogno dell'open web.
Per due decenni, la realtà virtuale è stata considerata uno dei più grandi fallimenti della storia della tecnologia. Era il 1995 quando Nintendo lanciava il Virtual Boy, sulla scia del successo de Il Tagliaerbe (il film tratto dal romanzo di Stephen King) e sfruttando l'attenzione che il movimento cyberpunk, nato appena dieci anni prima, continuava a ottenere. L'enorme campagna pubblicitaria organizzata dal colosso giapponese dei videogiochi faceva davvero pensare che il momento in cui tutti noi saremmo stati proiettati nel cyberspazio fosse finalmente giunto.
E invece, le cose sono andate diversamente. Il Virtual Boy fu uno dei più grossi flop di Nintendo: resistette sul mercato un solo anno, vendendo 700mila esemplari e diventando il simbolo stesso di quanto la fantascienza di film e romanzi fosse ancora molto lontana da divenire realtà. La ragione dell'insuccesso fu chiara fin da subito: indossare il casco del Virtual Boy non trasportava in un mondo virtuale, ma in semplici giochi in 3D (di qualità estremamente inferiore rispetto a quelli che sarebbero apparsi solo pochi anni dopo) per giunta in due soli colori, bianco e rosso. Come se non bastasse, l'utilizzo prolungato della console Nintendo provocava nausea e capogiri, tanto che il Virtual Boy si fermava da solo ogni mezz'ora per evitare di provocare eccessivo malessere.
Viste le premesse, nessuno rimase più di tanto stupito dal fallimento della console di Nintendo. E la realtà virtuale venne accantonata per sviluppare un'innovazione tecnologica che avrebbe davvero cambiato il mondo: internet.
Da allora, sono passati esattamente vent'anni e nel mondo della tecnologia è cambiato tutto. Oggi teniamo in tasca smartphone che sono più potenti di un qualsiasi computer che circolasse all'epoca, siamo costantemente immersi in reti sociali virtuali grazie a Facebook e Twitter e i livelli raggiunti dalla tecnologia hanno convinto i colossi della Silicon Valley o asiatici (Facebook, Google, Samsung, Sony) che le condizioni per rilanciare il,sogno perduto della realtà virtuale fossero finalmente quelle giuste.
Nonostante sul mercato siano già presenti numerosi “occhialoni” (il cui nome tecnico è headset), tra cui Google Cardboard,,Samsung Gear VR e altri, l'attesa degli appassionati è tutta rivolta al,gioiello creato dal programmatore 23enne Palmer Luckey e dalla sua start up,,Oculus VR (acquistata da Facebook nel 2014 per due miliardi di dollari): Oculus Rift, che uscirà,finalmente sul mercato a partire dal 28 marzo.
Nel giro di pochissimo tempo, avremo davvero la possibilità,di essere immersi in un mondo virtuale, all'interno del quale potremo muoverci,a 360° con piena libertà, vagando nell'ambiente in cui siamo immersi senza,restrizioni. Le prime applicazioni commerciali, ovviamente, sono tutte rivolte,ai videogame: il giocatore non si troverà più davanti a uno schermo, ma,all'interno del suo stesso videogioco, potrà girarsi e muoversi con completa,libertà, sperimentando un coinvolgimento totale.
O almeno queste sono le promesse, perché alcuni limiti, tecnici resistono ancora. Come posso provare una sensazione di immersione,totale se sono in verità comunque seduto su un divano e sto manovrando un,banalissimo joypad? Lo stesso Palmer Luckey si è detto consapevole di come,questo limite potrebbe compromettere l'esperienza virtuale, ma già oggi,numerose aziende e start up sono al lavoro per superare l'ostacolo.
Leap Motion, per,esempio, è un'azienda che produce controller che ricreano sullo schermo i,movimenti delle mani. Per Oculus, in particolare, sta lavorando a uno strumento,che viene montato sull'headset e che riprende in tempo reale i movimenti delle,mani, riproducendoli poi all'interno della realtà virtuale. In questo modo,,invece di tenere in mano un joypad, potremo semplicemente muovere le mani come,faremmo se fossimo nella realtà. In un gioco di guerra, quindi, basterà,simulare il movimento del premere il grilletto per riuscire a sparare. La start up newyorchese Tactonic,Technologies si sta invece concentrando sul movimento delle gambe e dei,piedi, creando un tappetino dotato di numerossimi sensori in grado di capire in,che direzione stiamo spostando il peso, facendo muovere di conseguenza il,nostro avatar in quella direzione. Nel complesso, però, la strada per la,totale immersione sembra essere quella tentata da alcune imprese, tra cui,l'austriaca Cyberith Virtualizer o,la texana Virtuix Omni: un,complesso tappeto in grado di percepire tutti i movimento del corpo (comprese,le torsioni del busto), sul quale si può effettivamente camminare e correre,(per quanto restando sul posto) e che consentirà in questo modo di sperimentare,un'immersione totale.
Questi, però, sono tutti strumenti ancora in fase di,sperimentazione. Affinché diventino realtà è necessario che prima abbiano,successo i vari “headset”. Cosa di cui in pochi sembrano dubitare, tanto che,Mark Zuckerberg ha già dato,vita a una divisione “Social VR” all'interno di Facebook, che ha lo scopo,di verificare in quali modi la realtà virtuale possa applicarsi ai social,network.
I videogiochi, in effetti, sono solo una delle possibili,applicazioni della realtà virtuale. Un'altra riguarda invece più da vicino il,business di Facebook e prevede che nel futuro abbandoneremo del tutto Skype e,FaceTime, e per metterci in contatto con un amico o un'amica indosseremo i,nostri caschi per poi ritrovarci tutti quanti nella stessa stanza, dove grazie,alla classica tecnologia social potremo comunque condividere foto, musica e,filmati, ma avendo in più la sensazione di essere davvero in presenza delle altre,persone.
Videogiochi e social network sono quindi gli avamposti di,una tecnologia che, secondo,gli esperti, avrà ripercussioni su tutti gli ambiti della nostra vita.,Compresa l'educazione. Lo studio dell'astronomia, per esempio, non dovrà più,avvenire provando a immaginarsi pianeti e galassie mentre si stanno leggendo,dei testi e guardando delle immagini su un libro, ma trovandosi immersi in un,sistema solare virtuale riprodotto alla perfezione. Allo stesso modo, le,caratteristiche delle piramidi egizie si potranno toccare con mano (per modo di,dire), così come quelle della Muraglia Cinese o quant'altro. Tutto,questo è già realtà per alcuni studenti, come quelli del San Francisco,Unified School District in California e delle Polk County Public Schools in,Florida. Secondo Brandon Farwell, uno degli investitori dietro l'headset pensato,appositamente per le scuole, Nearpod,tutto ciò rivoluzionerà l'educazione, consentendo anche di coinvolgere molto,più attivamente gli studenti e rendendo più facile stimolare il loro interesse,e la loro curiosità. Inoltre, il fatto che moltissimi studenti avranno già a,casa gli apparecchi necessari e che il costo di molti di questi device non è,irraggiungibile (già oggi alcuni vengono venduti a meno di 200 euro) potrebbe,col tempo rendere questa innovazione disponibile per tutti.
Questo per quanto riguarda le possibili applicazioni per le,scuole medie e superiori. Ma non stupisce che anche nel mondo delle università,ci si stia buttando a capofitto nell'esplorazione delle potenzialità della,realtà virtuale. Prendiamo il caso della Harvard Business School, che ha da,poco lanciato la sua nuova piattaforma di digital learning, HBX, che punta a superare i,classici limiti del MOOC (massive open online courses) – per esempio il fatto,che i forum di discussione siano spesso una pallida ombra di un vero confronto,vis-à-vis – anche attraverso la creazione di “classi virtuali”, in cui il,professore si confronta di persona con i suoi studenti, che appaiono su schermi,come in una sorta di enorme video-conferenza. Rispetto al classico digital,learning, i vantaggi sono subito evidenti: gli studenti possono interrompere in,tempo reale il professore per chiedere spiegazioni, possono discutere tra di,loro, lo stesso professore può chiedere alla classe di intervenire. Dinamiche,che quindi rendono l'insegnamento virtuale sempre più vicino all'efficacia,dell'insegnamento tradizionale. Se si parte dal progetto HBX Live e si pensa,come l'applicazione della realtà virtuale potrebbe ulteriormente migliorare la,sensazione di essere davvero in presenza degli altri studenti (potendo comunque,utilizzare gli strumenti digitali “classici”), si capisce quali siano le grosse,potenzialità per il mondo del digital e social learning.
Dall'educazione al mondo dell'informazione, il passo è,breve. La Bbc è una delle prime grandi imprese nel mondo dei mass media che sta,sfruttando le potenzialità della realtà virtuale per dare vita a dei,documentari “immersivi”, com'è il caso di “Easter,Rising: voice of a rebel”. Si tratta di un documentario che racconta la,Rivolta di Pasqua del 1916, durante la quale gli irlandesi provarono a,ribellarsi al Regno Unito per ottenere l'indipendenza.
La Bbc ha ritrovato l'audio registrato molti anni dopo i,fatti da William McNieve, un uomo che a quella rivolta ha partecipato. Sulla,base della sua registrazione, in cui i fatti sono ripercorsi passo dopo passo,,è stato possibile creare un dettagliato documentario all'interno del quale,,grazie al lavoro del laboratorio sperimentale di Bbc iWonder, lo spettatore si potrà,muovere con totale libertà.
Quello dei documentari e del cosiddetto “immersive,journalism” è in effetti uno degli ambiti in cui si sta lavorando di più,,seguendo due direttrici diverse. Da una parte, si lavora su veri e propri,documentari girati con telecamere a 360°, in cui lo spettatore viene guidato,dalle immagini ma potendo osservare tutto ciò che lo circonda e potendo,interagire con vari contenuti multimediali come schede, interviste,,approfondimenti, ecc. (un esempio è Ebola,Outbreak: a virtual journey); dall'altra parte troviamo invece lavori,come Project Syria,,in cui l'ambiente della guerra civile siriana viene ricreato virtualmente e in,3D dando così l'opportunità all'utente di muoversi con completa libertà negli,scenari che sono stati ricreati (per esempio, all'interno di un campo profughi,oppure a Damasco in seguito all'esplosione di una bomba). Nonostante i primi,esempi abbiano una grafica a dir poco spartana (soprattutto se la si paragona a,quella dei videogiochi), è sempre più evidente come le testate giornalistiche,puntino sul successo di iniziative di questo tipo per poter poi avere a,disposizione budget che consentano loro di migliorare sempre di più la qualità,del lavoro.
Lo stesso concetto di base, però, potrebbe avere,applicazioni anche molto più prosaiche. Come non pensare a un centro,commerciale virtuale all'interno del quale ci muoviamo grazie a Oculus,,scegliendo gli oggetti direttamente dallo scaffale o provando i vari vestiti,grazie alla fedele riproduzione di noi stessi che sarà il nostro avatar?,Inoltre, potremo pagare direttamente la merce con la carta di credito collegata,al nostro headset, anche se per ricevere la merce bisognerà comunque attendere,l'arrivo di un vecchio corriere. Altre applicazioni vengono immaginate per le agenzie immobiliari,,che potranno farci fare tour negli appartamenti senza bisogno di spostarci da,casa o per le agenzie turistiche, che potrebbero offrirci delle visite guidate,nei vari luoghi di vacanza per farci scegliere con maggiore cognizione di causa,dove trascorrere le ferie di agosto.
Non solo: la realtà virtuale potrebbe rendere completamente,obsoleti gli uffici. Già oggi il lavoro da remoto reso possibile da internet e,da programmi come Skype e Slack sta sempre più prendendo piede. Ma la,possibilità di ricreare un vero e proprio ufficio in realtà virtuale, in cui,avremo la possibilità di raggiungere i nostri colleghi per scambiare due,parole, fare una pausa assieme o ritrovarsi tutti assieme nella sala riunioni,potrebbe unire la libertà del “telelavoro” con l'efficienza del lavoro in,ufficio.
Dalle relazioni sociali all'educazione, dall'informazione al,lavoro, passando per lo shopping e i viaggi; non c'è ambito che la realtà,virtuale, potenzialmente, non possa trasformare. Il che, inevitabilmente, fa temere un futuro distopico, in cui vivremo attaccati a una macchina senza più la possibilità di renderci conto di cosa è reale e cosa invece virtuale. Un mondo simile a quello rappresentato più e più volte da Philip K. Dick e apparso sul grande schermo in film come Matrix. Che, in fondo, potrebbe aver disegnato,un futuro che avrà inizio proprio nel 2016.
La ragione per cui Skype è diventato uno strumento sempre più utilizzato per le comunicazioni di lavoro negli uffici e con i collaboratori a distanza è facilmente comprensibile: immediatezza. Mentre la mail è rimasta lo strumento principale per le comunicazioni più complesse e il telefono rimane indispensabile per le comunicazioni più urgenti o che necessitano una “spiegazione a voce”; Skype ha dimostrato di avere un ruolo importante anche nel mondo lavorativo, permettendo di sapere sempre chi era in linea, di poterlo raggiungere subito e di organizzare le varie comunicazioni in maniera molto più semplice delle mail, che oltre un certo punto diventando caotiche.
Il grosso limite di Skype, però, è saltato all'occhio rapidamente: essendo nato con scopi diversi da quello lavorativo, ha di fatto mescolato la nostra vita pubblica e privata in un unico strumento, con conseguenze indesiderate. Quante volte ci si è ritrovati assediati da amici che volevano chiacchierare mentre si era presi dal lavoro, ma comunque obbligati a restare connessi a Skype per le comunicazioni di lavoro? Un limite non da poco e difficilmente aggirabile.
Ed è esattamente qui che matura il successo di Slack: una piattaforma simile a Skype per moltissime funzionalità ma che nasce business-oriented, progettata al solo scopo di organizzare il lavoro in una maniera ottimale. “Stanze” diverse per le varie società o i vari team con cui si collabora (tutte personalizzabili al massimo); gruppi diversi all'interno dei vari team a seconda delle materie di competenza di ognuno (divisi più o meno come fossero uffici); possibilità di tenere in evidenza i messaggi più importanti e di richiamare l'attenzione di una persona in particolare all'interno di un gruppo, o anche di richiamare l'attenzione di tutto il gruppo in caso di emergenza.
Simile a Skype, quindi; ma costruito per essere efficace solo per le comunicazioni di lavoro. E così, nel giro di pochissimo tempo (la compagnia è stata fondata nel 2013, ma il vero successo è arrivato nell'ultimo anno), Slack è diventata nota come la start-up con il maggior tasso di crescita di sempre. Tanto che già oggi vale qualcosa come 2,8 miliardi di dollari.
I numeri, d'altra parte, parlano chiaro: Slack ha 2,8 milioni di utenti attivi mensilmente, 700mila utenti registrati alla versione a pagamento e fa segnare un tasso di crescita settimanale che varia tra i il 3 e il 5%. Inoltre, le sue potenzialità continuano a crescere e la possibilità di implementare bot al suo interno – assistenti automatizzati con cui chattare e ricevere assistenza per le più svariate attività – fa pensare che a breve il suo dominio si espanderà molto oltre il semplice mondo del lavoro.
Anche perché proprio in questo settore si comincia a intravedere un pericoloso rivale all'orizzonte: Facebook at Work. Il campo dei “social network lavorativi” - a parte il differente caso di LinkedIn – è ancora un territorio quasi inesplorato, ma dalle possibilità immense. Ed era quindi facile prevedere che uno come Mark Zuckerberg decidesse di metterci le mani. Dalle parti di Slack, comunque, non sembrano molto preoccupati: “Credo che il nostro sistema funzioni al meglio per le piccole-medie imprese, Facebook at Work mi sembra strutturato più che altro per le aziende molto grandi”, ha detto il ceo di Slack Stewart Butterfield.
In effetti, potrebbe non avere tutti i torti: Facebook at Work – che da pochissimo è uscito dalla fase beta – è strutturato come un vero e proprio social network, sul quale è necessario creare un profilo, in cui si ha a disposizione un newsfeed in cui vedere tutto ciò che pubblicano i colleghi, in cui si ha la possibilità di scrivere pubblicamente o in privato a tutti, di creare una discussione coinvolgendo più partecipanti. Una sorta di incrocio tra Slack e Facebook, che potrebbe tornare utile in un'azienda enorme in cui le persone non si conoscono, ma che diventa fin troppo complesso se si parla di una start up con 50 dipendenti in cui tutti si conoscono.
La comodità di Slack, in effetti, sta proprio nell'aver trovato il giusto equilibrio tra semplicità di utilizzo, personalizzazione e comodità nell'organizzazione del lavoro. Il che non significa che non manchino i difetti. Essendo uno strumento “freemium” (in cui, quindi, la versione base è gratis, ma per avere accesso a tutte le funzionalità bisogna pagare) i tanti utenti e aziende che lo usano gratuitamente devono fare i conti con un limite non da poco: si possono visualizzare solo gli ultimi 10.000 messaggi pubblicati su un team di Slack. Sembra moltissimo, ma per i gruppi numerosi, in cui si scrive tanto e che sono attivi da tempo, questo spazio si consuma più rapidamente di quanto si possa immaginare.
In questo modo, anche mettendo in evidenza i messaggi, il rischio di perdersi delle comunicazioni importanti è alto. Un limite che porta a una successiva riflessione, più critica e che è stata messa in evidenza in un post di enorme successo su Medium, intolato “La vera ragione del successo di Slack”.
In questo lungo articolo, si pone l'accento su come Slack porti alle estreme conseguenze quella “sindrome” che affligge molti utilizzatori di social network e non solo: FOMO (fear of missing out), ovvero la paura di perdersi qualcosa di importante: “Se non sei su Slack tutto il tempo, capita che tu non possa prendere parte a una conversazione con il team. Per cui, altre persone potrebbero fare riferimento a cose che non conosci e alle quali non hai preso parte (e che a causa del limite dei 10.000 messaggi, potresti non recuperare più, ndr). Nelle aziende, è molto importante essere informati su cosa sta succedendo, non solo per il tuo lavoro, ma anche per la tua posizione nell'azienda e le future ambizioni. Il risultato è che la pressione di sociale di essere su Slack 24 ore al giorno si fa molto forte”.
Quindi, o si sta su Slack tutto il giorno – con ciò che ne consegue – oppure si rischia di non poter recuperare una conversazione molto importante e che magari si è persa. In alternativa, si può pagare per avere accesso illimitato alla conversazione, il che è esattamente ciò che vogliono dalle parti di Slack.
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